Violenti si nasce o si diventa?

Se la natura dell’uomo sia intrinsecamente “buona” o “cattiva”, o se sia l’ambiente a determinare il comportamento è questione ampiamente dibattuta dalle principali dottrine filosofiche così come dalle principali teorie psicologiche sullo sviluppo dell’individuo. Fino a non molte decadi fa la maggior parte dei lavori sul tema dell’aggressività umana e della crudeltà erano basati sulla premessa che siamo individui guidati principalmente dai nostri istinti ereditari. L’altro” servirebbe solo come strumento o scarica di questi impulsi. Queste conclusioni vengono oggi messe in discussione proprio dalla biologia e dalla psicologia evolutiva che mettono in evidenza chiaramente quanto gli esseri umani siano indispensabili gli uni agli altri.

Oggi la maggior parte della letteratura nel campo della psicologia evolutiva sottolinea che l’essere umano è per natura un animale socialmente cooperativo, che nasce con una innata predisposizione alla relazione con un altro essere umano e che cresce e si sviluppa psicologicamente e fisicamente solo all’interno di una matrice relazionale capace di recepire, riconoscere e soddisfare i suoi bisogni emotivi. E’ quello che afferma John Bowlby quando scrive che:

“I piccoli dell’uomo […] sono pre-programmati per svilupparsi in modo socialmente

cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende in grande misura da come vengono

trattati” .

Queste conclusioni, e la ricerca da cui scaturiscono, sono cruciali per coloro che si occupano della violenza domestica come fenomeno che può e deve essere compreso per poter essere prevenuto. Esse indicano che la distruttività umana, così come il trauma psicologico, non possono essere capiti senza passare attraverso il riconoscimento dell’importanza intrinseca delle relazioni umane nel nostro sviluppo e nel nostro senso del benessere, a partire dalle prime relazioni di attaccamento attaccamento nei confronti del care-giver principale, strategia che è il risultato della qualità delle interazioni quotidiane avute con la madre, cioè delle risposte della madre in termini di riconoscimento dei bisogni, disponibilità emotiva e responsività sensibile. I bambini che hanno avuto esperienza di una cura genitoriale coerente, attendibile ed empatica, tendono a sentirsi attaccati in maniera sicura e immagazzineranno, come dice Bowlby, un “modello operativo interno” di una persona che si prende cura di loro sensibile, amorosa, affidabile e di un sé che è meritevole di amore e di attenzione e porterà questi assunti a influire su tutte le altre relazioni. I bambini che hanno invece sperimentato, in forme e gradi diversi, abbandono, rifiuto, violenza e cure incoerenti, sono classificati come attaccati in modo insicuro; un bambino dall’attaccamento insicuro può vedere il mondo come un posto pericoloso nel quale le altre persone devono essere trattate con grande precauzione e si considererà come incapace e non meritevole di amore.

Esiste ormai una vasta letteratura che, confermando le prime intuizioni di Bowlby, mostra gli effetti disastrosi della carenza di cure primarie nell’innescare i cosiddetti “cicli dello svantaggio”: persone allevate in famiglie infelici o disgregate hanno maggiori probabilità di avere figli illegittimi, di diventare madri adolescenti, di fare matrimoni infelici, di divorziare.

I genitori che maltrattano fisicamente i propri figli tendenzialmente hanno avuto un’infanzia caratterizzata dall’essere ignorati, rifiutati e trattati con violenza. Le ragazze che provengono da famiglie disgregate, quando diventano madri tendono a parlare meno ai loro bambini, a toccarli meno e a guardarli meno. Ma non tutti i figli di famiglie infelici soffrono e falliscono allo stesso modo; c’e’ bisogno di un modello complesso per spiegare le differenze individuali tenendo in considerazione il bambino, i genitori, gli eventi e la loro valutazione, l’ambiente sociale.

Poiché i figli tendono a identificarsi inconsapevolmente con i genitori sotto vari aspetti, e pertanto ad adottare, quando siano diventati a loro volta genitori, verso i propri figli, gli stessi modelli comportamentali che hanno essi stessi sperimentato durante la propria infanzia, modelli d’interazione, sia adattivi che disadattivi, si trasmettono più o meno fedelmente da una generazione all’altra. Pertanto l’eredità della salute mentale e della malattia mentale tramite la microcultura familiare è certamente non meno importante di quanto sia l’eredità tramite i geni e forse anche più importante.

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